Diocesi

Ritiro di Quaresima dell’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, al clero diocesano di Acqui

“Discepoli missionari” della parola

Prendi il rotolo e mangia

«Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole” […]. Mi disse ancora: “Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico ascoltale con gli orecchi e accoglile nel cuore: poi va’, rècati dai deportati, dai figli del tuo popolo, e parla loro. Ascoltino o non ascoltino, dirai: ‘Così dice il Signore’”» (Ez 3,1-4.10-11).

Mons. Testore e Mons. Nosiglia
Mons. Testore e Mons. Nosiglia

Il profeta Ezechiele è chiamato ad essere sentinella in mezzo al suo popolo, deluso e amareggiato, perché lontano dalla propria terra e reso schiavo a Babilonia, incredulo sulla potenza di Dio e sull’Alleanza eterna fatta con i suoi Padri. Il profeta deve essere come la sentinella, che alza la voce e grida, per richiamare a tutti la fedeltà di Dio, il suo perdono per i loro peccati di idolatria e di incredulità. Egli deve indicare la via giusta, che riconduce il cuore della gente al vero Dio, e ridare dunque speranza di salvezza. Egli va in mezzo al suo popolo, perché è mandato, scelto e chiamato ad essere profeta del Signore.

Prima, però, deve mangiare il rotolo del Libro della Bibbia, che contiene la divina Parola, deve nutrirsi di quella parola, che è uscita dalla bocca di Dio e che è cibo che penetra nelle viscere e le purifica («è amaro come il fiele»: cfr. Ap 10,9-11), ma, una volta assimilato, diventa dolce come il miele, che riscalda il cuore e dà forza alla sua missione. È questo un gesto tipico della chiamata dei profeti. Ricordiamo Isaia, che, nel Tempio del Signore, vede la grande visione e sconvolto proclama: «Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito» (Is 6,4). Allora, uno dei serafini prende un carbone ardente e tocca le labbra del profeta, dicendo: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato» (Is 6,6). Poi, la voce del Signore dice: «Chi manderò e chi andrà per noi?» (Is 6,8). E il profeta risponde: «Eccomi, manda me». Allora, il Signore lo investe della missione e gli dice: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate”» (Is 6,9). Ricordiamo anche Geremia, il quale protesta, perché non si considera all’altezza di fare il profeta a causa della sua giovane età. Ma il Signore gli dice: «“Non dire: ‘Sono giovane’. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò”. […] Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e il Signore mi disse: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca”» (Ger 1,7.9).

Sono queste varie forme, che richiamano la stessa verità: ogni profeta e sacerdote, che annunzia la Parola di Dio, non lo fa per sua iniziativa, ma per una chiamata ricevuta; e prima di annunciare deve mangiare egli stesso la Parola, nutrirsi di essa, farsene discepolo, ascoltatore, fruitore. Ma ciò che colpisce in queste chiamate di Dio ai profeti è proprio la relazione che si stabilisce tra loro. È un rapporto che si avvale del dialogo, in cui Dio parla e il profeta risponde, il profeta parla e Dio risponde. Non è un monologo da una o dall’altra parte, ma una reciprocità. E l’ascolto sta alla base di tutto ciò: solo chi si mette in atteggiamento di ascolto, può udire la voce di Dio e rispondere.

Gesù era stimato dalla gente, perché a differenza degli scribi, predicava con exousia, cioè come uno che autorità. «Non è necessario che il presbitero sia uno specialista in teologia, ma deve essere maestro di fede. E questo significa che deve essere capace di vedere la differenza tra la fede e la riflessione sulla fede, deve insomma possedere il sensus fidei. Mentre lascia agli specialisti lo studio e le ricerche di loro competenza, rimane suo compito indicare ai fedeli quale sia il dato della fede, oggetto della loro riflessione, il quale rimane stabile nelle variazioni delle teorie. Insomma è il discernimento tra il dato della fede e la riflessione della fede il compito dei Pastori. Ma come ottenere questo dono del discernimento? La condizione fondamentale per acquisire la capacità del discernimento consiste nel maturare il sensus fidei che lo stesso popolo di Dio ci offre e che la familiarità con Lui nell’ascolto della sua Parola, nutre ogni giorno. Ecco perché diventa indispensabile l’ascolto quotidiano di Dio mediante la sua Parola, che dà luce per discernere il sensus fidei negli avvenimenti della vita e della storia» (J. Ratzinger, intervento al Consilium Conferentiarum Episcopalium Europae, Roma 2001). La Parola scuote il nostro torpore, risponde alle nostre domande, allarga i nostri orizzonti, ci offre criteri per interpretare e valutare i fatti e le situazioni. È come uno specchio, in cui ciascuno può scorgere la propria immagine e la propria storia.

Il cibo quotidiano della Parola di Dio

Come presbiteri diocesani, non abbiamo una regola di orari stringente e determinata, come i monaci, per cui queste affermazioni potrebbero apparirci un po’ teoriche, considerati i tempi della nostra giornata e le scadenze che la caratterizzano sul piano del ministero. Credo tuttavia che, se vogliamo ricuperare il senso di quanto ci viene detto dal Magistero della Chiesa circa la necessità di nutrire ogni giorno la nostra intelligenza, il cuore e la vita, della divina Parola, dovremmo valorizzare meglio e con più calma quanto già facciamo – o ci è richiesto di fare dal nostro sacerdozio. Penso, ad esempio, alle tante occasioni e momenti della giornata e della settimana in cui il ministero ci chiede di accostare la Parola di Dio:

  • l’Ufficio delle letture permette ogni giorno di svolgere una proficua meditazione sulla Parola di Dio, accompagnata dalla catechesi dei Padri, che ne completa il messaggio. Lodi e Vespri, Ora media e Compieta offrono vari testi biblici, che rischiano, a volte, di scivolare veloci senza lasciare traccia. Eppure, sappiamo che basta una sola parola del Signore per convertire la vita ed aprire la via della salvezza. Sostare, anche brevemente, sulla lettura breve o su un versetto di un salmo è sufficiente per imprimere l’impronta di Dio nelle nostre attività;
  • la celebrazione della Messa resta il momento centrale in cui la Parola nutre con abbondanza la nostra giornata. È opportuno fare sempre una breve omelia, anche se ci sono poche persone. La scelta è importante per noi, anzitutto, perché permette di sostare sui testi biblici, previamente alla celebrazione stessa, per non dire parole al vento ed incentrare l’omelia sul contenuto essenziale della Parola di Dio, che in quella giornata la Chiesa offre a tutti i fedeli;
  • la celebrazione del sacramento della Riconciliazione in forma individuale (quella comunitaria è impostata, come sappiamo, sull’ascolto della Parola prima dell’esame di coscienza) prevede che nell’accogliere e ascoltare i fedeli si faccia riferimento almeno a qualche versetto della Bibbia, perché al di là delle nostre esortazioni richiamiamo ai fedeli la Parola del Signore quale fonte di fede e di speranza in Lui, per trovare la forza poi, con il sacramento, di metterla in pratica;
  • durante la settimana, penso che ormai sia diventata regola comune a tutti i sacerdoti, almeno me lo auguro, di preparare l’omelia domenicale accostando i brani della liturgia con l’aiuto di buoni sussidi esegetici, che permettono di non ripetersi e di approfondire il contenuto delle tre letture, anzitutto per se stessi. È questo un esercizio che fa parte del rispetto che dobbiamo alla Parola di Dio e ai fedeli. Certo non è facile ritagliare, a volte, nel proprio tempo questo spazio, ma ricordiamo bene quanto ci insegna il vangelo di Marco: tutti cercavano Gesù, ma egli si era alzato presto e si era appartato per pregare (cfr. Mc 1,35-37). La preghiera di Gesù è ascolto e dialogo con il Padre suo. Per questo egli ha bisogno di un luogo solitario, esce di casa o va sul monte da solo. Anche questo è un chiaro invito a non illudersi di poter accogliere e studiare la Parola con calma nel consueto ambiente di casa, la canonica, dove spesso c’è un porto di mare tra gente che va e viene, telefona o cerca il prete. Occorre uscire fuori e trovare un luogo diverso, meno “affollato” di persone e di pensieri o impegni che premono;
  • c’è poi il consiglio di san Gregorio Magno, che dice: «La Scrittura cresce con chi la legge» (Omelia su Ezechiele I, 7, 8). Ed egli lo faceva regolarmente con la sua gente, riflettendo e pregando con loro sui testi della liturgia domenicale, arricchendosi del dialogo e delle loro considerazioni. Questo lo portava, come egli stesso ricorda, a cambiare spesso anche l’omelia che aveva preparato, tanti erano gli spunti nuovi ed interessanti che riceveva dalla gente, ispirata senza dubbio dallo Spirito Santo. La lectio divina settimanale può servire anche a questo scopo, oltre che ad offrire ai fedeli un nutrimento fondamentale per la loro fede. È dunque un appuntamento fisso, che va promosso con perseveranza, chiamando a parteciparvi anzitutto i nostri collaboratori pastorali più vicini. La “domenica della Parola di Dio”, come ci invita a fare Papa Francesco, è un traguardo da perseguire e far diventare tradizione nelle parrocchie. A questo proposito, il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio del 2008 affermava che la lectio divina non è riservata a pochi, perché non saremmo cristiani autentici in un mondo secolarizzato, se non avessimo la possibilità e il desiderio di aprire l’intelligenza e il cuore alla comprensione delle Sacre Scritture. Questo mondo richiede oggi personalità cristiane contemplative, attente, critiche, coraggiose. La Parola di Dio aiuta il discernimento sulla situazione storica della propria esistenza e dona luce di verità per gestirla secondo la volontà di Dio ( La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, 38);
  • nella visita pastorale, ho notato che negli incontri dei catechisti o di vari gruppi si inizia sempre con un brano della Parola di Dio. È una buona abitudine, che aiuta a collocare anche il successivo confronto o dialogo nel suo giusto ambiente vitale;
  • infine, persino la visita ai malati, se accompagnata dal riferimento ad un brano biblico della Messa del giorno, ad esempio, ci dà modo di abbeverare il loro e il nostro spirito alle fonti della Parola.

Ho fatto questa carrellata per sottolineare che, se facessimo tesoro ogni giorno ed ogni settimana delle occasioni e momenti in cui, di fatto, leggiamo la Bibbia o troviamo, per scelta, il tempo di farlo, avremmo già risposto egregiamente all’impegno di non lasciare passare invano la Parola che la Chiesa ci offre con abbondanza e alla quale il nostro spirito anela come fonte zampillante, che disseta la ricerca di Dio e ci riempie del suo Spirito.

Va’, ecco, io ti mando

Il profeta Ezechiele, come ogni profeta e sacerdote, riceve il compito di andare a predicare la Parola di Dio. Nutrito egli stesso del cibo della Parola, la deve offrire a tutti, sempre e comunque, sia che la gente ascolti o non ascolti. Non deve aspettare che qualcuno lo cerchi e gliela chieda, ma deve essere lui a cercare le persone e a farsi trovare nel concreto vissuto della loro esistenza per incontrare, condividere, testimoniare e annunciare la Parola.

Il profeta non ha mezzi propri, non ha strumenti per convincere, ma è sostenuto dallo Spirito del Signore, che apre il cuore e la mente di chi lo ascolta. Deve donare la Parola e ha come unico suo mezzo la Parola stessa, che è potenza di Dio per chi l’accoglie. La sproporzione tra l’incarico ricevuto e le nostre deboli forze è colmato dalla potenza dello Spirito, che opera in noi grazie al ministero che abbiamo ricevuto e su cui possiamo contare. Allora la nostra debolezza diventa forza di Dio ed opera cose mirabili agli occhi nostri.

San Paolo ne è cosciente, quando scrive nella Prima Lettera ai Corinti: «Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,3-4). Purtroppo c’è sempre il rischio che, invece della Parola, annunciamo le nostre parole, che riteniamo convincenti o esperte, per attirare l’adesione o l’interesse delle persone. E loro stesse tante volte ci adulano dicendo: “Come ha predicato bene! È in gamba, non ho mai sentito un’omelia come questa!” e così via. State attenti – ci ricorda il Signore – «quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti» (Lc 6,26).

Tutti conosciamo quanto il biografo del santo Curato d’Ars sottolinea a proposito della sua predicazione. Il santo Curato era stato ordinato prete con grandi perplessità, perché non riusciva a raggiungere la sufficienza negli studi ed era stato mandato appunto ad Ars, piccolo borgo sperduto, perché lì la gente era ignorante ed un prete poco istruito poteva bastare. Ebbene, in quel tempo a Notre-Dame di Parigi numerosi ed esaltati erano i grandi predicatori dei quaresimali o delle novene  e tridui. La gente per ascoltarli riempiva la Cattedrale. Commenta allora il biografo del santo Curato: «Questi insigni oratori ecclesiastici facevano andare la gente persino sui confessionali per ascoltarli; il Curato d’ars, con le sue semplici parole accompagnate da tanta umiltà e mitezza, faceva andare la gente dentro i confessionali». E questo segnava e segna anche oggi la differenza tra chi predica la Parola, facendo sfoggio di abilità oratorie o considerazioni moderne, magari un po’ eccentriche e trasgressive, che fanno sempre audience, e chi la spiega con fedeltà ai testi sacri e semplicità, secondo l’insegnamento della Chiesa e con convinzione interiore, perché la vive.

Ma chi deve annunziare il profeta? «Le mie parole», gli dice il Signore

San Paolo ai Corinti afferma con forza: «Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2Cor 4,5-6). Il kerigma è dunque il centro vivo della Parola di Dio, perché contiene il tutto della salvezza per ogni uomo: «Se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è il Signore!”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (Rm 10,9-10).

Può sembrare un fatto scontato, questo, ma in realtà non lo è, se consideriamo l’enorme spreco di parole, che si consumano ogni giorno nella nostra vita. E mi riferisco non solo a quelle laiche o futili dei mass-media, ma anche a quelle che fanno parte della pastorale e degli incontri ecclesiali, scritte od orali. Il kerigma ci riporta all’essenziale della fede, che rischia di essere soffocato dalle parole e di non emergere più come fattore determinante per la fede e la conversione. Il kerigma non è solo l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù, ma è anche la lettura della Scrittura riferita a questo centro vivo della fede pasquale. Tutta la predicazione deve convergere sul kerigma e da questo tutto parte per interpretare la Scrittura nella sua pienezza di significato e di testimonianza. Gesù stesso lo insegna ai due discepoli di Emmaus: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).

Perché oggi, come sempre, è così importante ritornare al kerigma? Perché questo ci richiama al fatto che la fede cristiana è una persona vivente da conoscere, incontrare, amare, accogliere e seguire. Ricorda il Documento base della catechesi: «Cristiano è chi ha scelto Cristo e lo segue. In questa decisione fondamentale per Gesù Cristo è contenuta e compiuta ogni altra esigenza di conoscenza e di azione di fede» (n. 58). Naturalmente, non è il “mio Gesù” che occorre predicare e vivere, ma il Cristo della fede della Chiesa, che conduce ad accogliere la Parola, a celebrarla nei sacramenti e a viverla nella carità.

In quanto maestri e pastori nel popolo di Dio, siamo chiamati a svolgere questo decisivo compito di interpretazione e discernimento della Parola, perché i fedeli siano nutriti di verità e non di favole, come ricorda bene Paolo all’apostolo Timoteo: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,2).

Una Parola che è amara come il fiele e dolce come il miele

Mi ha sorpreso sentire il cardinale Martini, insigne studioso e amante della Bibbia, parlare della sua difficoltà  a leggere e a cercare di comprendere alcuni testi sacri. Diceva: «Quanto più conosco e frequento la Bibbia, tanto più mi appare bella e tanto più mi appare difficile e brutta. Mi dispiace certamente usare questa parola per una realtà di fronte alla quale vivo un rapporto devoto di figliolanza. In altre parole vorrei dire che, col tempo, quanto più la Scrittura mi si rivela nei suoi aspetti capaci di far risplendere la luce di Cristo, tanto più mi pesano le sue durezze, le sue pagine faticose da leggere e da accettare e soprattutto difficili da inquadrare nell’orizzonte di Cristo umile e misericordioso. Mi chiedo, a volte, riguardo a certi passi di brani liturgici, nei giorni festivi, in particolare della seconda lettura: che cosa capirà la gente di queste poche righe che sono difficili da leggere persino quando un esegeta le inquadra nel suo contesto originale? Le stanno veramente ascoltando? E come farò, in pochi minuti di omelia, ad evitare almeno i fraintendimenti più vistosi su di essi? La distanza del linguaggio biblico dal nostro moderno è grande: nascondere o banalizzare tale difficoltà non aiuta a un uso della Bibbia che la renda momento felice di incontro con Cristo» (Intervento all’assemblea della CEI, maggio 1997).

Ancora una volta il cardinale Martini coglie nel segno e non ha timore di sollevare un problema reale, di cui forse non prendiamo coscienza e che dovrebbe invece stimolarci, come maestri e pastori, a penetrare con onestà intellettuale e sapienziale nel testo biblico, per ricavarne quegli spunti di verità e di annuncio, che dobbiamo poi trasmettere ai fedeli. Un accostamento superficiale alla Bibbia le fa perdere molto della sua capacità di presa su noi stessi e su coloro a cui siamo chiamati a comunicarla. La Bibbia si legge, si studia, si medita, si contempla nel suo mistero, si conserva nel cuore, si prega e si attua nella vita. Sono tutti passaggi indispensabili, se vogliamo far sì che il testo biblico riviva pienamente e con efficacia nei nostri cuori.

È un dovere primario, a cui non possiamo sfuggire, se non vogliamo vanificare la stessa efficacia della Parola. Essa è come avvolta da un velo, che solo la fede, l’azione dello Spirito e l’aiuto della Chiesa ci permettono di sollevare. Quanta superficialità e pressapochismo, invece, guidano i nostri passi nell’avvicinare i brani biblici, ridotti spesso più ad uno spunto per parlare di ben altro, con la scusa di attualizzarli nella vita delle persone e del tempo! La Parola di Dio, al contrario, se è accolta con verità, non ha bisogno di aggiunte, perché parla in modo diretto e chiaro alla vita, la interpreta, la purifica e la salva. Ce ne offre un esempio mirabile lo stesso Gesù, quando spiega ai discepoli le parabole del seminatore o del grano e della zizzania, due omelie o catechesi bibliche semplici, che svelano la vita di tante persone, dell’ambiente che le circonda, delle loro scelte morali e delle conseguenze che da esse discendono per il loro domani. E ce ne offrono una testimonianza i santi, come Francesco, che meditavano e vivevano la Parola accogliendola “sine glossa”.

Il libro del cammino

 Termino con la bella espressione del famoso testo tratto da Racconti di un pellegrino russo: «Per grazia di Dio sono un uomo e sono un cristiano – e sono un sacerdote, aggiungiamo noi –,  per azioni grande peccatore, per vocazione un pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terreni sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pane secco, e, nella tasca interna del camiciotto, la sacra Bibbia. Null’altro».

Questa suggestiva immagine di un pellegrino, che viaggia in compagnia della Bibbia, può diventare la parabola del nostro cammino di Chiesa, di comunità e di sacerdoti. Tante sono le cose che possiamo mettere e mettiamo nella bisaccia della nostra giornata. Non manchi mai la Bibbia, che, sola, può indicarci la strada da percorrere sicuri e lieti verso la meta che il Signore ci indica. La Bibbia ci assicura che Dio si fa pellegrino con noi, ci accompagna, dialoga, spiega la sua parola, riscalda il cuore, svela la sua presenza nascosta, ma reale, dà forza ai nostri passi incerti e stanchi. Chiediamo al Signore di non essere mai sazi di questa Parola, sempre aperti alla sua novità, sempre assetati alla sua fonte, come ci ricorda, con accenti profondissimi e coinvolgenti, sant’Efrem: «Siamo proprio come degli assetati che bevono ad una fonte inesauribile: chi infatti è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Rallegrati dunque perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della Parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista, perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tu sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi ancora ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece, saziandoti, seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso e portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità» (Commenti sul Diatessaron 1,18-19).

 TESTI DI APPROFONDIMENTO

2Corinti 4, 1-4: «Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio. E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio».

Presbiterorum ordinis, 4: «Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della Parola del Dio vivente che tutti hanno diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti. Dato infatti che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno il dovere di annunziare a tutti il vangelo di Dio».

Pastores dabo vobis, 26: «Il sacerdote è, anzitutto, ministro della Parola di Dio, è consacrato e mandato ad annunziare a tutti il vangelo del Regno, chiamando ogni uomo all’obbedienza della fede e conducendo i credenti a una conoscenza e comunione sempre più profonde del mistero di Dio, rivelato e comunicato a noi in Cristo. Per questo il sacerdote stesso per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la parola di Dio: non gli basta conoscerne l’aspetto linguistico ed esegetico, che pure è necessario, gli occorre accostare la Parola con cuore docile e orante, perché penetri a fondo nei suoi pensieri e sentimenti e generi in lui una mentalità nuova – “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16) – in modo che le sue parole, le sue scelte e i suoi atteggiamenti siano sempre più una trasparenza, un annuncio e una testimonianza del vangelo».

SINTESI

Nella sua crescita vocazionale e nel suo impegno ministeriale, il presbitero è chiamato:

  • ad un ascolto ed ad un’accoglienza continua e approfondita della Parola di Dio, quella rivelata e tramandata nella Divina Scrittura e autenticamente proposta dal Magistero della Chiesa e dalla sua Tradizione;
  • ad assumere un atteggiamento orante e di umile obbedienza;
  • a prendere coscienza che la Parola di Dio lo conduce a diventare vero discepolo di Cristo, perché «tutta la Scrittura parla di Lui» (Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2, 8);
  • a valorizzare la consegna, che egli riceve per il suo ministero, di spezzare il pane della Parola di Dio ai fedeli e a tutti gli uomini.

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